«Padre, ho smesso di pregare», mi dice una signora sulla quarantina, in confessionale. «Me ne sono successe troppe: con gli ultimi tagli del personale ho perso il lavoro; mio marito mi ha lasciata per una sua collega, che potrebbe essere sua figlia; e da qualche giorno un esame medico ha decretato la mia sentenza di morte».
La guardo. Le si inumidiscono gli occhi. Le porgo un fazzoletto di carta.
«Non prego più… a che serve?
Dio, se esiste, ce l’ha con me, altrimenti, con tutte le preghiere che gli ho rivolto, cambierebbe qualcosa di questa situazione. Oppure ha talmente da fare da non considerare una come me; d’altronde, è Dio, non soffre, non muore: quando mai potrà comprendere ciò che sto vivendo, soffrendo…?».
Mentre, senza saper cosa dirle, la guardo asciugarsi il segno di una lacrima che le ha rigato una guancia, mi accorgo di aver aperto la bocca e sento la mia voce.
«Lo ha già fatto: facendosi bambino e condividendo dal basso ciò che noi siamo, guardando la realtà dalla nostra parte, dalla tua».