Appena 19enne Riccardo sperimenta l’esperienza del volontariato in missione. Qualcosa che lo tocca nel profondo e che lo stimola ad accrescere il suo bagaglio personale, a dare un senso diverso alle scelte della sua vita stimolandolo a diventare una persona migliore.
Mi chiamo Riccardo, ho 19 anni e l’estate scorsa ho avuto la possibilità e la fortuna di vivere l’esperienza di missione in Benin insieme a un gruppo molto numeroso di missionari laici e non.
La missione può assumere numerosi volti, ma molto importanti sono gli occhi con cui la si guarda e il cuore con cui la si vive.
I miei occhi naturalmente erano quelli di un ragazzo che aveva da poco raggiunto la maggiore età e che doveva ancora trovare il modo in cui indirizzare la propria vita, alla ricerca di nuove ed importanti esperienze che potessero dare un senso alle proprie scelte presenti e future.
Ho sempre pensato infatti che la vita venga influenzata e in un certo senso decisa dalle scelte, dalle “avventure” e dalle esperienze che ci permettono di accrescere il nostro bagaglio culturale e spirituale per diventare persone migliori nel presente e nel futuro.
Il filosofo francese Henri Bergson paragonava la vita a un lungo filo di lana che avvolgendosi su se stesso diventa un grosso gomitolo in cui la vita nel presente si interseca e si annoda con quella passata che costituisce la parte preponderante di noi.
Ecco, l’esperienza in missione per me è stata come un nodo che rimarrà sempre evidente nel gomitolo della mia vita. Tutta questa parentesi filosofica per quanto possa essere noiosa o poco condivisibile da alcuni, mi è servita per dire che in realtà la mia vita prima di quel mesetto scarso in terra africana aveva ben poca idea di che piega avrebbe preso.
E allora come molti sono partito con tantissime domande sperando di trovare altrettante risposte: la principale era riguardante il mio futuro immediato, cioè quale università si addiceva di più a me, perché uscendo da un liceo Scientifico le strade che avrei potuto intraprendere erano davvero innumerevoli. Le due scelte più probabili (Medicina o Economia) erano anche ciò che di più opposto si possa immaginare, e nessuna delle due prevaleva sull’altra.
Nel gruppo di missionari con cui sono partito ho avuto la fortuna che ci fosse un medico speciale e una futura infermiera, rispettivamente fra Alessandro e Ilenia, da cui avrei potuto essere aiutato nel pensare al settore sanitario. Stare a diretto contatto con quello che sarebbe potuto essere il mio futuro lavoro, pensavo, sarebbe stato il modo migliore per decretare la scelta verso la Medicina o il definitivo abbandono a favore di Economia.
Subito nei primi giorni della missione ho dunque avuto la fortuna di affiancare fra Alessandro e Ilenia, accompagnandoli nei dispensari dei vari villaggi dove settimanalmente avvenivano le visite gestite dalle suore Camilliane di Zinviè. Già il fatto che le persone, a causa della povertà, non possano raggiungere l’ospedale e debbano aspettare tutta la settimana per ricevere delle cure, è stato il primo campanello che ha fatto nascere in me l’indignazione causata dall’ingiustizia.
Ma ancora più di questo, il fatto di vedere bambini e ragazzi della mia età affetti da malattie che porterebbero di sicuro alla morte se non venissero curate con i giusti mezzi mi ha spinto a voler fare qualcosa per poter aiutare persone come queste, disposte ad aspettare ore e ore anche sotto al sole per poter essere assistite.
Nonostante tutta la buona volontà non possedevo alcuna competenza per alleviare il dolore che comporta la malattia, e quindi mi limitavo a tenere compagnia e a intrattenere i pazienti in coda, alternandolo a momenti di “apprendimento medico” ascoltando quello che diceva fra Alessandro mentre visitava.
Quando ci si trova in presenza di una situazione di bisogno e non si è in grado di far nulla, ci si sente come impotenti di fronte al problema e in un certo senso anche inutili. È proprio in quei momenti di apparente inutilità e in quegli istanti di inefficienza che ho realizzato che nella vita avrei voluto essere d’aiuto per l’altro, per il mio prossimo, specialmente verso coloro che hanno maggior bisogno, verso coloro che si affidano totalmente nelle mani dell’altro perché il proprio istinto di sopravvivenza non è abbastanza ma c’è bisogno di competenze specializzate alla cura.
A distanza di 15 mesi da quegli splendidi giorni in terra africana, ripensando proprio a quell’esperienza, ho maturato la convinzione che sono i singoli avvenimenti, anche quelli che sembrano forse i più miseri, che influiscono in modo maggiore sull’andamento della vita di ognuno.
Oggi, dopo essermi nel frattempo diplomato, frequento l’università di Medicina e Chirurgia a Novara, dove mi aspetta un lungo percorso, ma so già che potrà passare in un attimo se non scorderò mai il motivo che mi ha spinto a questa scelta. Mi rimane un sogno, quello di tornare un giorno in un villaggio e poter essere d’aiuto a tutte quelle persone che continueranno ad aspettare l’intera settimana per essere visitate. Questa è quella che viene definita la missione di ritorno.
Questa è la mia missione nel quotidiano.