diocesi Domenica 7 novembre 2010
Don Lonati
L’unico «fidei donum» ambrosiano in Turchia racconta il dolore
per la tragica morte di monsignor Luigi Padovese e chiede verità sulla vicenda
DI PINO NARDI
Una ferita apertissima, che provoca ancora molto dolore. La tragica morte di monsignor Luigi Padovese, il presidente della Conferenza episcopale turca, ucciso lo scorso giugno, continua a sollecitare le coscienze dei credenti. E necessita di una parola di verità su quanto è successo. Lo sollecita don Giuliano Lonati, unico fidei donum ambrosiano, da quasi tre anni a Samsun in Turchia.
Dopo la tragica morte di mons.Padovese, com’è il clima che statevivendo in Turchia?
«Io vivo in una zona abbastanza isolata nel Nord-est, a 400 chilometri dalla Georgia, sul Mar Nero. Qui tutto è tranquillo, tutto tace e viviamo nella speranza che esca qualche parola di verità da parte dei magistrati che sono incaricati di far luce sulla vicenda. Per il momento non si sa niente, è un silenzio che urla. Speriamo tanto che si faccia luce su questa tragedia che si ripete, come ha detto anche l’arcivescovo di Smirne, monsignor Ruggero Franceschini: don Santoro, in precedenza i tre cristiani di Malachia, poi Padovese».
Cristiani piccolo gregge: come possono continuare a testimoniare la propria fede in quelle terre?
«A mio modestissimo parere, stando alle regole, cioè con la massima discrezione, finezza, rispetto, considerazione, attenzione. Senza nascondere che non è proprio un bel vivere. Non c’è la libertà religiosa, è inutile negarcelo: bisogna stare in chiesa ed essere accoglienti. A me dispiace molto un fatto: che la morte di Padovese si sia appiattita eccessivamente sulla
cronaca, a volte anche sul pettegolezzo. La morte di Padovese non è stata una morte qualunque, ma è stata decapitata la Chiesa della Turchia. I cristiani e la Chiesa vivono tuttora un dolore, che domanda anche l’aiuto a conservare l’apertura alla riconciliazione e quindi al perdono. Ma domanda anche il rispetto della natura di questo dolore, di una madre che invoca la verità dei fatti. Questo non è venuto fuori ben chiaro, però mi sento di dirlo, perché sono un cristiano e un prete parte di questa Chiesa che vive un dolore terribile».
Monsignor Padovese era un grande uomo del dialogo pur nella difficoltà della situazione. La sua morte mette in discussione questo percorso di incontro e di dialogo con i musulmani?
«Non credo. Certo, per essere tale il dialogo ha dentro elementi di verità. Probabilmente qualcuno ha cercato di percorrere piste in questa direzione. forse ha toccato punti un po’ delicati in qualche intervento, ma che comunque rispondono alla verità. Più che l’uomo del dialogo, mi pare che Padovese sia da qualificare anche come
uomo della verità. Questo non significa voler offendere nessuno. Ma se dobbiamo dialogare bisogna rimuovere le precomprensioni, le distorte conoscenze che i musulmani hanno nei nostri confronti e che noi abbiamo verso di loro, che comunque tutti abbiamo nei confronti della storia. Per rimuoverle bisogna sapere in cosa consistono. Probabilmente lui è andato a toccare qualche aspetto in quel senso. Padovese come don Andrea sono persone che hanno votato la vita per cercare piste, strade, modi nuovi per dire il Vangelo di sempre dentro un dialogo che di per sé è difficile, ma non impossibile».
Il Sinodo delle Chiese del Medio Oriente, che si è appena concluso a Roma, che contributo può offrire?
«Il Sinodo ha acceso tanta speranza nelle Chiese di Turchia e medioorientali. Tuttavia poi è disarmante ascoltare le notizie che arrivano da Baghdad: siamo tutti esterrefatti per quello che è successo lì, perché è tutta una reazione a catena».
Da quasi tre anni è in Turchia come fidei donum.
Quale bilanciopuò tracciare della sua missione?«Ho capito che chi deve lavorarepiù di tutti, per creare le condizioniperché il dialogo possa esserci,sono proprio i cristiani: devono
spiegare la loro identità ai musulmani, che conoscono il cristiano e il cristianesimo in un modo molto distorto. Chi parla a loro sono gli imam. I cristiani
devono rivendicare invece questa loro capacità di spiegare la loro identità, come sollecita anche san Pietro: "Siate sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi".
Quindi la nostra presenza qui attraverso la vita e la parola deve essere una chiara "spiegazione" dell’identità cristiana, della Chiesa e del Vangelo. Fintanto che non si fa questo sarà difficile: parleremo di dialogo, ma non si potrà fare, perché le identità non si conoscono. E siccome i musulmani non chiedono, perché presumono di saperlo, noi dobbiamo comunque dare ragione della nostra identità a loro, perché si rendano conto che in realtà non ci conoscono. Quindi secondo me il dialogo non è possibile allo stato attuale, sarà possibile se si creeranno le condizioni. Poi i rapporti di buon vicinato, la cordialità, il sorriso sono tutti aspetti che vanno bene, anche se favoriscono sono condizioni marginali. Invece quando si arriva
al dialogo ci vogliono condizioni più consistenti».
Il cardinale Tettamanzi ha detto che «non vi lasceremo soli». Cosa può fare la Diocesi di Milano per aiutarvi?
«Io sono l’unico fidei donum di Milano, però sento la mia Chiesa vicina, mi sento "espansione" della missionarietà della nostra Chiesa. Quindi mi sento abbracciato dal mio presbiterio del quale io faccio parte e di tutta la Diocesi. Il cardinal Tettamanzi non ci ha mai lasciati soli. Cosa può fare? Per il momento restiamo qui a vedere come deve precisarsi la nostra presenza in un Paese musulmano e concordemente nella Chiesa locale che da secoli vive qui. Noi entriamo in punta di piedi cercando di condividere gioie e dolori e la ricerca di nuovi modi per dire il Vangelo di sempre anche ai musulmani, perché la tensione missionaria è questa».
DI ANNAMARIA BRACCINI
ll Medio Oriente è in sofferenza, eppure sono convito che questa crisi non gli sarà fatale, ma quello che dispiace è che non si possa fissare, per così dire, un "prezzo" per la pace. Per
quanto elevato sia, sarà sempre meglio che continuare a vivere, di fatto, in guerra». Non ha dubbi, monsignor Edmond Farhat, a Milano per impegni pastorali e ospite del cardinale Tettamanzi, «che mi onora della sua amicizia da oltre 30 anni», spiega. Nato in Libano, impegnato presso molte nunziature, a Vienna, in Tunisia e Turchia, arcivescovo di Biblos e nunzio apostolico, monsignor Farhat è, insomma, un conoscitore privilegiato della storia recente e della realtà di quelle zone e, in questa sua veste non a caso, è stato anche delegato ascoltato e di prestigio al recente Sinodo del Medio Oriente. Assise che, infatti, tiene a citare quando sottolinea quello che, secondo lui, potrebbe essere quel "prezzo" della pace: «Bisogna fare pressione sulla politica internazionale – riflette – perché convinca Israele e Autorità Palestinese, che un domani di tranquillità è a favore sia dell’uno sia dell’altra. C’è posto per tutti, ci vuole solo un poco di fiducia». Ma è proprio qui, che il sorriso gentile del vescovo Farhat, lascia il suo volto, perché la parola fiducia presuppone «smettere di aver paura e, dunque, di farsi la guerra e di uccidere. Ma chi vuole davvero ascoltare parole così?». E se, al Sinodo, i Vescovi della regione hanno chiesto l’intervento dell’Onu, in un tale orizzonte di pacificazione della Palestina, la domanda è ovvia: perché la mediazione dell’Onu e non della Chiesa di Roma? «La Chiesa ha una missione religiosa, porta l’Annuncio e la Parola di Dio, indica e invita, dice la verità oggettiva dei fatti, non sta né con una né con l’altra parte. È per questo che a molti politicanti non piace.
Vorrei ricordare Paolo VI che nell’ottobre 1965, di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, scandì: "Mai più la guerra". E abbiamo visto, in questi decenni, come il suo appello sia caduto nel vuoto. Quante morti e devastazioni da allora… Lei – continua Farhat – che vive nel cuore dell’Europa, a Milano, consideri come la pace ha creato, nelle vostre terre, prosperità, cultura, progresso, dignità riconosciuta alle persone, al loro lavoro e alla loro vita. Le direttive della Santa Sede esistono, ma, talvolta, ho l’impressione che sia il popolo di Dio che non le segue». Tra i frutti che ha prodotto la guerra, c’è anche il martirio, come quello di monsignor Padovese, che lui stesso ordinò vescovo e ha conosciuto bene: «Sono due gli uomini di preghiera e di fede che hanno colpito in modo particolare la mia vita: monsignor Padovese in Turchia e il domenicano padre Pierre Claverie, assassinato in Algeria al ritorno da una celebrazione in memoria dei sette monaci trappisti trucidati a Tibhirine, vicenda cui si ispira il film "Uomini di Dio". Padovese aveva studiato i Padri della Chiesa e sapeva che le persecuzioni fanno parte della testimonianza, Claverie era un conoscitore dell’islam. Entrambi avevano uno straordinario rispetto per la gente, a qualunque credo religioso appartenesse.
Mi è stata chiara fin dal primo momento la ragione per cui sono stati uccisi: "davano fastidio" ai loro avversari che non potevano trovare ragione per attaccarli». E, forse, anche se monsignor Farhat non lo dice apertamente, è proprio per la "politica" che non facevano, che furono bersagli fin troppo facili da colpire.
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