Angré
Se non fosse tra i ricordi più preziosi della mia vita, quasi quasi vorrei non essere mai stata ad Angré prima che l’ospedale venisse chiuso: rimane un posto bellissimo, con gli ampi spazi ed i suoi chiostri bianchi e rossi, ma in qualche strano modo riesce sempre a sembrare troppo vuoto.
Il che, va detto, in una certa misura risulta quasi balsamico, almeno quando si è appena arrivati: da una Milano formicolante si atterra direttamente in uno spazio dove è possibile trascorrere diverse ore senza imbattersi in anima viva, e se per caso accade… bene, ad Angré nessuno è nemico.
La prima mattina, ancora gonfi di sonno non fatto, è bello emergere dalla propria stanza appena in tempo per la Messa, ed imbattersi in Padre Antonio nei suoi paramenti bianchi e verdi, pronto per la celebrazione, come se ci fossimo salutati appena ieri, e invece è quasi un anno che non ci vediamo, e almeno quattro che non ci incontriamo qui.
Dopo, poi, è divertente seguirlo e vederlo alle prese coi suoi cani, mentre gli fa le bagnole antipidocchio, e imparare di nuovo ad orientarsi: la cappella è diventata la sala tv, il refettorio è sorto di nuovo e si è ingrandito. Però c’è sempre la palma intrecciata, quella che, per me, vuol dire Angré quasi più della parola stessa, e quel mio angoletto all’estremità di una delle verande del piano rialzato, dove nessuno mi ha trovato mai, dove posso intuire il sole che tramonta in un cielo che sarebbe africano anche senza i palmizi all’orizzonte.
Alepé
Invece il foyer di Alepé ha un che della Svizzera, anche se la missione sorge nel mezzo di una piana soffocante; sarà forse il lume un po’sbieco che arriva qui, vicino all’Equatore, e che mi fa pensare alla Bretagna e all’Irlanda, quei miei posti-paradiso dove finisco per non andare mai, ed il cerchio si chiude quando arrivo qui e trovo le stesse luci e la stessa atmosfera che mi sarei augurata di trovare là.
E, un pochino, sarà anche il fatto che tutto, ad Alepé è ordinato e vividamente colorato, come appunto penseresti della Svizzera e di quei posti esclusivi – ma questo è un posto esclusivo, in fondo: ci siamo solo noi! – tipo studentato, università o località di villeggiatura, con la stessa tranquillità feconda di promesse e di emozioni.
Potrebbe essere la Svizzera, tutto sommato: questa, prima della guerra, era la Svizzera dell’Africa, e anche la Brianza ti viene incontro con l’accento e la barba di Padre Paolo, sicché anche l’Italia non può essere tanto lontana!
La pittura
Che, diciamolo francamente, è il mio vero carisma francescano: coi bambini abbiamo visto che sono ontologicamente negata; per i malati abbiamo pure visto che ci devo ancora lavorare su parecchio prima che incontri il “mio” lebbroso; gli anziani (almeno) da queste parti sono altamente considerati, e non mi pare necessitino di particolare assistenza; la vita puramente contemplativa la tengo per se e quando non potrò fare più nient’altro – e forse avrò piacere, allora, di non aver troppe omissioni da contemplare.
Il mio talento (nel senso di volontà e piacere) per la lettura di genuinamente francescano ha poco: o mi inculturo domenicana (e, a questo punto della vita, so già che non ce la posso fare) oppure rimango quella che sono. E mi consegno senza riserve alla ristrutturazione di edifici di culto o assimilabili.
Quest’anno la Provvidenza ha deciso di favorirmi: noi volontari del gruppo ZH/mese di agosto, anziché nell’attività di supporto al sostegno a distanza originariamente prevista e contrariamente a quelli di luglio, destinati un po’ per scelta un po’ per la forza delle circostanze, e per loro stessa ammissione, ad “inventarsi la giornata” nell’animazione dei bambini, veniamo invece proiettati senza riserve nell’ausilio alla rimessa a nuovo degli edifici adibiti a scuole cattoliche siti nel perimetro della missione, in vista dell’imminente consegna alla diocesi.
L’attività (per noi) consiste nella doppia mano di bianco (cioè: di giallo) all’interno degli edifici; Le motivazioni del cambio di intenti sono nebulose ed oscure: pazienza! Viviamo alla giornata! Accettiamo quel che ci concede la Provvidenza! Tuffiamoci gioiosamente nella tinta gialla!
Il direttore dei lavori è tuttavia Fra Renato, il Peter Pan dei Missionari Cappuccini, uno di quelli che funzionano meglio di un beverone energetico, e ti fanno venir voglia di lavorare anche se non ce l’hai – a meno che tu non sia ontologicamente immune, e anche questo è un aspetto che si vedrà: ha l’aria alacre persino quando se ne sta immobile. Il capomastro è Sylvain, che già avevo conosciuto l’anno scorso in molto più infelici circostanze di collaborazione: tranquillo ed efficace, se non efficiente, lavorare sotto la sua supervisione non è un problema.
Del resto, ho notato, imbiancare è come andare in bicicletta: dopo che l’hai fatto una volta, non te lo scordi più, e le finezze del mestiere riemergono alla luce in poco tempo.
D’accordo, ci sarà anche un motivo se gli scolari pigri venivano un tempo sistematicamente minacciati di essere messi a bottega dal muratore o dall’imbianchino (minaccia che, vista l’attuale situazione socio-economica caratterizzata da un’offerta ipertrofica di laureati e di cronica carenza di artigiani ed operai specializzati, ha perso completamente di valore esemplare) nel senso che, in teoria, è un lavoro che potrebbe fare anche l’individuo più zuccone; ma, ed è il solito uovo di Colombo, non è tanto il fatto di poterlo fare: è come lo fai; è la volontà, è l’impegno che ci metti, che cambia tutto.
Alessia Allegri