In occasione dei 70 anni dalla morte di P. Cecilio Rota, missionario in Brasile, la nipote ha voluto condividere con noi la sua ricerca per commemorare la figura dello zio, soprattutto la sua vita missionaria di pochi anni ma molto intensa e terminata in maniera incredibile e tragica la sera del 29 luglio 1954 in una sciagura aviatoria.
Ricorre quest’anno il 70° anniversario della morte di Padre Cecilio, mio zio Rota Giacomo Angelo, fratello di mia madre Caterina, del quale conservo ricordi indelebili nella mente e nel cuore, nonché i suoi diari di viaggio e della sua attività di missionario in Brasile le cui pagine mi sono sempre state preziose e tuttora mi accompagnano. Sono grata a codesta Redazione per avermi consentito di commemorare lo zio su questo storico periodico e a P. Costanzo Cargnoni per avermi concesso di prendere visione di alcuni documenti di P. Cecilio conservati nell’Archivio Generale dei Frati Cappuccini di Milano. Mi accingo quindi a ricordare P. Cecilio riprendendo in forma integrale testi/citazioni da pagine firmate da Rev.mi P. Cappuccini, da riviste e quotidiani del periodo e più recenti. Ogni annotazione aggiunta è evidenziata dal carattere corsivo. Con grande stima e in comunione di preghiera Pinuccia Moioli.
“È ora che me ne vada, mamma. Anche oggi devo fare il mio esercizio”. P. Cecilio si infilò la tuta, si aggiustò il saio e si allontanò da casa suggellando con una fragorosa risata le solite raccomandazioni della mamma. Un’ora dopo sul cielo di Villa d’Almè appariva ronzando un piccolo aereo da turismo con a bordo il nostro ”Padre volante” e il cugino Adriano. L’aereo compiva parecchie evoluzioni. Ma ad un tratto l’apparecchio ebbe uno strano movimento; qualcosa non andava. Il motore batteva a scatti staccati … poi si fermò e fulmineo si precipitò a vite: ne seguì un forte boato, uno schianto d’ali, poi un silenzio di morte … (così scrive F.T. sul trimestrale Lug-Sett 1954 LUX DE CRUCE, Studenti Cappuccini Lombardi).
Padre Cecilio era figlio di un muratore. Era nato il 2 settembre 1921 da Rocco e Giuseppina Magni. Viveva con i genitori e la sorella in una piccola casa, in fondo al paese di Villa d’Almè. Il padre andava spesso a lavorare in Francia e avrebbe voluto che Angelo lo seguisse per imparare il mestiere, avrebbe voluto farlo studiare un po’, tirarne fuori un buon capo-mastro. Ma Angelo pensava ad altro, voleva diventare prete. La vocazione era così forte che il padre finì per acconsentire. Andò a studiare a Bergamo, nel convento dei frati cappuccini.
In quegli anni l’abitato di Dalmine (6 Luglio 1944) veniva selvaggiamente bombardato dal cielo. Appena in città si seppe che i morti e i feriti erano numerosi, e scarsi i mezzi di soccorso, F. Cecilio, già studente di teologia, con altri due compagni del Convento di Bergamo, si presentarono al loro Padre Guardiano e chiesero di poter correre sul luogo del disastro. Fu uno dei più instancabili nell’estrarre dalle macerie i feriti, cui prestava le prime cure, e i cadaveri disfatti, che poi componeva pietosamente nella camera ardente. Atto di generosità tanto lodato allora dal popolo e dalle Autorità civili e militari e che passerà alla storia come attestato dello spirito di carità e di sacrificio che anima ancora i Frati del popolo. (E pensare che da giovinetto durante le sue scorribande ebbe un gomito fratturato nello scambio di un binario. Si rese necessario un intervento con il posizionamento di numerose viti d’oro. Così ricordava mia nonna quando mi parlava del suo adorato figlio).
Compì gli studi ginnasiali, di liceo e di teologia nei seminari serafici e negli studentati della nostra Provincia, emettendo la professione semplice a Lovere il 2 Agosto 1940; quella solenne l’8 dicembre 1943 a Bergamo. Fu ordinato sacerdote il 1° marzo 1947 e scelse la via più difficile del sacerdozio, quella del missionario.
P. Cecilio visse per le Missioni fin dai primi anni di Convento. Egli non sapeva concepire la vita religiosa e sacerdotale fuori dall’ambito missionario. E per la vita missionaria non gli mancavano le doti fisiche: costituzione robusta, salute ferrea, che reggeva a tutti gli incomodi, a tutti gli strapazzi, a tutte le fatiche; non gli mancavano le doti morali: cuore generoso, volontà risoluta e dedizione totale al suo ideale.
Per la sua preparazione, F. Cecilio ritenne necessaria anche l’abilitazione all’esercizio della medicina. Coi dovuti permessi, quando era a Milano nello studentato, alternò le lezioni di teologia a quelle di medicina all’università. Fece pratica sotto un illustre chirurgo: il prof. Di Natale, primario dell’Ospedale Fatebenefratelli e si iscrisse ai corsi dell’Istituto di Medicina Missionaria di Monza e riuscì il primo del corso, guadagnandosi in premio un ostensorio che poteva volta a volta essere calice da messa o pisside per la comunione: un arredo sacro che portò con sé nella sua missione brasiliana.
La storia di Padre Cecilio è troppo bella per essere raccontata così, in poche righe. Bisognerebbe riprodurre le pagine dei diari che raccontano del viaggio da Genova a Rio de Janeiro e poi a Fortaleza, della sua attività di Missionario nel Maranhão, nella terra dei Timbiras, le lettere indirizzate dagli sperduti villaggi del centro del Brasile ai familiari, ai molti amici e ai Padri Superiori o le fotografie e i filmati che ha realizzato e che in parte gelosamente conservo.
Finalmente giunse il giorno della partenza. Per un Missionario si tratta del momento sospirato e, nel contempo, sofferto: si corona un sogno, ma si opera un distacco. Era il 4 novembre del 1947. Partiva, a ventisei anni, con altri confratelli e col Padre Provinciale, P. Benigno da S. Ilario Milanese, poi Ministro Generale (5 agosto 1954), col quale aveva rapporti di confidenza filiale e dal quale per molti anni aveva avuto una paterna assistenza, che temperava gli eccessi dei giovanili entusiasmi. Salpavano da Genova sulla Maria C, una nave mista mercantile-passeggeri dei signori Costa, armatori genovesi, con le lacrime agli occhi per la mamma e i suoi cari che lasciava.
“Finalmente l’agente dei Costa, Sig. Frisia, spiccò l’ordine: Tutti i passeggeri a bordo”. Fu come un tocco di una campana a morto. Strano! Sospiravo il momento della partenza, l’avevo sognato e desiderato da tanti anni, ed ora che era venuto, mi addolorava tanto! “Ciao, coraggio, speriamo di rivederci ancora, addio, grazie di tutto, buon viaggio” erano le parole ultime che stavamo scambiando; quando tre fischi prolungati, rauchi, paurosi ci fecero sussultare. Si parte. Erano le 7,12 (di sera). Allora cominciò uno sventolio di fazzoletti e di mani; un gridare: ”addio”! Domandai al papà e alla mammà la loro benedizione, ed io diedi loro la mia. Restai solo a piangere, finché tutto scomparve. Solo in quel momento potei capire la grandezza del sacrificio, del distacco di un missionario che tutto abbandona per seguire la chiamata di DIO. “Ah P. Provinciale, dissi io, non credevo fosse così doloroso il distacco”. Se tuttavia avevamo sofferto, però tutti avevamo il cuore felice: il nostro ardente sogno di essere un giorno missionari, di valicare i mari e gli oceani per salvare anime, diventava adesso realtà.
Dopo 12.000 Km, dopo 37 giorni di viaggio abbiamo raggiunto la meta: il Convento di Fortaleza, capitale del Ceará nel Brasile nord-orientale. Era il 10 dicembre 1947. Te deum laudamus!!!” Così scrive P. Cecilio nelle pagine del suo “Note di Viaggio” il 28 marzo 1948.
Dopo aver appreso la lingua è ripartito per Carolina, città dello stato del Maranhão, sul fiume Tocantins, ch’era la sede della Missione, ha percorso 1.100 Km: parte in treno, parte in camion, parte in barca; infine gli ultimi 300 Km a cavallo. E nella Prelazia di Grajaú trascorse sei anni di intensa vita missionaria
La “desobriga” (Chiamasi “Disobriga” l’andare che fa il missionario fra i limiti della parrocchia (300 Km) per portare almeno una volta l’anno assistenza religiosa e spirituale agli indios. Per me lo giudico il ministero più fruttuoso e veramente Apostolico che possiamo esercitare. – Fr. Bernardus ab Andermatt, Min. Gen. Capucc. – La Voce di S. Antonio M.Zaccaria – n, 2/2021) era la sua vita; le selve gli davano agio di impegnare le sue esuberanti energie negli interminabili viaggi per la catechizzazione degli indigeni. La fama della sua abilità medica trasse ben presto attorno a lui schiere di malati, sperduti nelle selve e privi di ogni cura e di ogni conforto.
P. Cecilio sulle orme del Massaia, curava i corpi, ma intanto curava anche le anime, riportandole a Cristo. I quaderni di “Annotazioni” che ci ha lasciati, riportano minuziosamente le fatiche sostenute nei viaggi di ministero; le centinaia di chilometri percorsi quasi sempre a dorso di mulo; le migliaia di anime da lui evangelizzate e spiritualmente assistite.
Gli indigeni dei più sperduti villaggi impararono a conoscere e ad amare il gigantesco frate dalla barba nera, che se ne arriva a cavallo suonando la fisarmonica, che parla correttamente il loro dialetto, che ha una parola buona per tutti e un rimedio efficace contro ogni male. Dopo il concerto, l’ambulatorio: tracomi da medicare, denti da estirpare, appendici da tagliare, piaghe da svelenire. E il giovane frate fa tutti i mestieri, fa operazioni chirurgiche con mezzi di fortuna, prepara impacchi e unguenti, insegna a pregare e a sopportare il dolore.
Messa e catechismo, scuola, ambulatorio, lunghe e faticose cavalcate attraverso la foresta o le praterie, guadando fiumi o superando le montagne. I pericoli non erano mai troppi. Non temeva i serpenti dalla puntura mortale, non i ragni che possono uccidere in un’ora, e neppure la lebbra degli indigeni. Poi ci sono i lebbrosi; come S. Francesco li va a scovare nel folto della giungla ov’erano stati abbandonati dalle loro stesse tribù ad attendere la morte.
“Ho estratto cinquemila denti, – scrive il cappuccino alla mamma – ho praticato centinaia di amputazioni”. La vita laggiù gli piace moltissimo, è sempre in giro a cavallo, a piedi, suona la fisarmonica. E prega, prega sempre.
Scatta fotografie che raccontano una vita di lavoro e di dedizione: Padre Cecilio, la fluente barba nera che gli incornicia il volto, è a cavalcioni di un piccolo mulo, che sembra ancora più piccolo per l’eccezionale mole del missionario. È vestito come un esploratore, il casco coloniale, i calzoni di tela rimboccati negli stivali; l’equipaggiamento glielo hanno regalato alcuni indios a cui il buon frate aveva prestato le sue cure di medico e di pastore di anime.
(fine prima parte)