Nuovi linguaggi e Missione
Con le parole si può dire tutto e il contrario di tutto. Si può confessare la verità e affermare la menzogna. Prendiamo il termine "emergenza". Stando al vocabolario, dovrebbe voler dire "situazione eccezionale", "stato di allarme", "avviso di pericolo". Insomma l’emergenza dovrebbe essere l’eccezione, nella vita della gente. Ma stando ai giornali è la regola. Se facciamo attenzione non c’è Tg o quotidiano che sia senza un’ "emergenza" nei titoli e nei pezzi che seguono.
In particolare, per quanto concerne il nostro Paese, sembra che ogni cosa sia diventata un’emergenza: dai rifiuti, al maltempo; dal prezzo dei carburanti, alla giustizia, all’immigrazione. E ancora: emergenza criminalità, emergenza ubriachi al volante, emergenza stragi del sabato sera, emergenza bagagli in aeroporto, emergenza incendi… Come dice Luca Goldoni, bisognerebbe cambiare la definizione scritta nei vocabolari in questo modo: "Emergenza: stato di assoluta normalità". Ecco che allora forse la vera emergenza è proprio la banalità del linguaggio giornalistico. Ma non è tutto qui! V’è mai capitato di leggere queste espressioni: "guerra umanitaria", "un silenzio assordante", "lo scoppio della pace", "un omicidio efferato", "una sanguinosa battaglia"? E chi più ne ha più ne metta.
Il problema è che questo modo di comunicare sta contaminando ogni forma di linguaggio, anche il linguaggio ecclesiale e missionario… E dire che la nostra lingua è meravigliosa, vive di magie, di alchimie tra sostantivi avverbi e aggettivi. Perché ridurla a un coma perenne? Questa pigrizia invade ormai le parole, proprio quelle parole che caratterizzano il mestiere del giornalismo. Si respira aria, è il caso di dirlo, aria viziata. Cerchiamo allora insieme di capire cosa c’è dietro questa babele di linguaggi, di parole che ci impediscono di comunicare e dunque di capire, comprendere…
Comunicare…
Il termine "comunicare" deriva dal latino commune; si tratta di una parola composta dal prefisso cum e da un derivato di munus ("incarico, compito") per cui commune vuol dire letteralmente "che svolge il suo compito insieme con altri" (cfr. Gregorio Arena, Cittadini attivi, Editori Laterza, Bari 2006, pag. 88). Da questa radice deriva, nella lingua italiana, una lunga serie di termini (ad esempio, comune, comunione, comunità, comunanza…), tra cui appunto il verbo "comunicare", che indicano complessivamente la dimensione del rendere partecipi più soggetti tra loro. Ne consegue che il mondo della politica, del sindacato, della cooperazione internazionale, ecclesiastico, missionario… dovendo veicolare messaggi d’inestimabile valore incentrati sul rispetto della "res publica", delle regole, della dignità umana, della religione non possono prescindere dal cum-munus" , cioè dalla dimensione partecipativa rispetto alla loro precipua missione.
Il primo nodo da sciogliere riguarda la relazione tra la comunicazione "ad intra" e quella "ad extra". Nel secolo scorso è maturata la consapevolezza che la qualità della comunicazione ad extra dipende dalla qualità della sua comunicazione ad intra. Una sensibilità che è cresciuta anche nei circoli ecclesiali dopo il Vaticano II. Non a caso Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Ecclesia in Africa tra l’altro scriveva che: "la Chiesa prende coscienza del dovere di promuovere la comunicazione sociale ad intra e ad extra. Essa intende favorire la comunicazione al suo interno migliorando la diffusione dell’informazione tra i suoi membri. Ciò l’avvantaggerà nel comunicare al mondo la Buona Novella dell’amore di Dio rivelato in Gesù Cristo". (n. 122) . Andiamo allora per ordine: occorre anzitutto comunicare bene ad intra; e qui dobbiamo constatare che vi è molto spesso un deficit di comunione/relazione ad intra per cui le varie componenti — poco importa se politiche, sindacali o ecclesiali – si muovono con uno spirito di forte autorereferenzialità, veicolando messaggi a volte in contraddizione o competizione gli uni con gli altri. Per esempio, si realizzano documentari su un determinato paese africano parlando unicamente dell’attività della propria congregazione/ordine/ong come se fosse l’unica a fare bella figura. Si tratta di omissioni che determinano un’incredibile sporulazione di spot in quanto alla fine ognuno realizza autonomamente produzioni d’ogni genere, filmiche o esclusivamente pubblicitarie, con l’intento dichiarato di finanziare i progetti. In questa prospettiva si avverte il bisogno di un maggiore coordinamento.
Ma non è tutto qui: vi è molte volte la tentazione di far coincidere la comunicazione ad intra con quella ad extra creando confusione e disagio tra la gente, sia a livello linguistico che contenutistico. Così si dimentica che tra comunicazione ad intra e ad extra vi è relazione, ma non coincidenza. Detto in italiano corrente: molte volte la gente non ci viene dietro perché i sui grandi temi non ci capisce, la nostra esposizione è accademica, usiamo il politichese… Ci manca paradossalmente la capacità di spezzare il pane della Parola; e dire che noi come missionari/religiosi dovremmo essere maestri in questo servizio comunicativo. Il nostro obiettivo è quello di raggiungere le masse, coloro che sono fuori le mura delle nostre Chiese. A questo riguardo è illuminante la provocazione lanciata da José Comblin, un biblista brasiliano d’origine belga, autore tra l’altro di un saggio dal titolo più che emblematico: "La Forza della Parola". Nell’introduzione, Comblin pone un interrogativo sul quale la comunità ecclesiale, nelle sue molteplici componenti, dovrebbe seriamente riflette: "Perché oggi milioni e milioni di parole non suscitano altro che indifferenza o noia? Molte volte sperimentiamo che nella Chiesa si parla molto per non dire nulla; che molti discorsi sono incomprensibili; che esiste una barriera fra il mondo contemporaneo e i discorsi ecclesiastici. Avremmo per caso smarrito il segreto della Parola forte di Dio?"
Citazione di Piero Coda, teologo
«Penso a quanto Giovanni XXIII diceva nell’indire il Concilio, ovvero il concetto di aggiornamento: la sostanza della fede è immutabile, mentre il linguaggio che la esprime va plasmato sintonizzandosi sui segni dei tempi. Viviamo una situazione di epocale transizione culturale. Abbiamo ereditato una forma di chiesa radicata nel tardo Medioevo: la modernità, la società plurale, l’innovazione tecnologica, i movimenti migratori provocano la Chiesa a essere più plastica, affinché vi giochino il loro molo attivo tutti gli stati di vita. Urge far spazio a una coscienza cristianamente formata secondo il vangelo e la dottrina cristiana che penetri tutte le realtà antropologiche e sociali. Serve più spazio alla dimensione femminile. C’è bisogno insomma di più profezia come testimonianza della novità evangelica e come espressione di pluralità».
Il secondo nodo da sciogliere riguarda in particolare l’informazione che, come sapete bene, è una delle tante forme di comunicazione. Il contenuto semantico di "in-formare" significa letteralmente "dare forma", "plasmare, modellare secondo una determinata forma" (Cfr. Gregorio Arena, ibidem). Da rilevare che il prefisso "in" ha un’accezione accrescitiva anziché negativa (come ad esempio nel caso di "in-formale" o "in-forme"). Viene allora spontaneo chiedersi in che senso l’informazione possa dare forma alla realtà nazionale e internazionale, unitamente alla vita della gente. La risposta è che informando si dà ordine alle notizie, sia nel senso stretto di eliminazione del disordine sia in quello più ampio di ricerca della verità e riduzione della complessità determinata da un alto indice di notizie, attraverso un sano discernimento sulle fonti. Dobbiamo ammettere senza reticenze che soprattutto in Italia l’informazione ha assunto in questi anni una connotazione fortemente provinciale.
Del Sud del Mondo si parla poco e male, nella migliore delle ipotesi durante l’ultimo notiziario televisivo della notte o in poche righe tra le brevi nei quotidiani. Non che si pretenda di rovesciare la prospettiva: il criterio per cui i fatti di casa devono mantenere un peso discriminante è sano, ma questo non significa che i valori che fanno di ogni individuo "un fratello in umanità" debbano essere resi evanescenti dall’indifferenza o dalla banalizzazione. Oggi tutto sembra ridursi ad una specie di rotocalco provinciale infarcito di calcio, cronaca rosa, pettegolezzi, fornelli e beauty-farm. Poco importa che si tratti dell’ultimo "reality show" fatto apposta per azzerare il cervello della gente, delle fiction a prova di congiuntivo o del concorso di Miss Italia…, l’omologazione risponde, nella maggioranza dei casi, a logiche commerciali che fanno moda e tendenza. Se poi, per causa di forza maggiore, i temi sono di respiro internazionale, come nel caso della crisi mediorientale, i casi sono due: o vengono radicalmente ignorati o altrimenti, nella migliore delle ipotesi, ridotti ai soliti stereotipi stile Western dove fin dalle prime battute si sa chi sono i buoni (i cowboy) e i cattivi (gli indiani). Quando poi qualcosa dovesse miracolosamente filtrare, i servizi giornalistici descrivono il mondo per contrapposizioni estreme: buono-cattivo, nero-bianco, reazionario-rivoluzionario… il che porta inevitabilmente a sintetizzare e dunque a semplificare realtà complesse e articolate.
A volte si ha addirittura la sensazione che l’essenziale, per chi opera nel mondo della stampa, non sia informare di quanto succede in altri paesi, ma di competere come se l’informazione fosse una gioco in cui gli uni sorvegliano gli altri. Ne consegue che quando scoppia una crisi internazionale, come quella irachena, tutte le principali testate catapultino i loro inviati nello stesso unico posto e in quello si radunino a frotte. Il resto del mondo non esiste o almeno è virtualmente sospeso per rispondere a presunte esigenze di mercato. Sta di fatto che addirittura la "denuncia" è relegata nello spazio della "satira televisiva" al punto che per illudersi di stigmatizzare l’ingiustizia, in maniera peraltro discutibile, si finisce con il far ricorso a programmi del calibro de "Le Iene" di Italia uno. Da questo punto di vista il ricorso ad una classificazione per generi, considerata tradizionalmente uno strumento utile nell’analisi di una tv dinamica intesa come specchio dei cambiamenti della cultura di massa, diventa assai ardua. Non foss’altro perché è sempre più difficile cogliere la differenza, ad esempio tra un dibattito sulla fame nel mondo e un duetto tra comici. Negli ultimi anni, infatti, è diventato praticamente impossibile identificare categorie fisse di trasmissioni. Se, quindi, prima era possibile suddividere le programmazioni televisive nelle due grandi macro categorie, l’informazione pura da una parte e l’intrattenimento dall’altra, ora non lo è più, soprattutto con l’avvento dei grandi contenitori in cui si mescolano sacro e profano. La verità è che senza rendercene conto stiamo tutti subendo il condizionamento di un nuovo genere che gli esperti definiscono "infotainment", neologismo con il quale si indica, appunto, l’ibrido tra information ed entertainment. Personalmente ritengo che l’editoria cattolica abbia la sacrosanta responsabilità di ridare all’informazione la sua dignità anche perché l’avvento del digitale televisivo, con canali dedicati alla politica internazionale o alle news in genere, è per certi versi già oggi un dato di fatto. Informarsi è un dovere, essere informati un diritto, ma la negazione delle due cose, non dimentichiamolo, è dittatura!
L’ultimo nodo da sciogliere che vorrei porre alla vostra attenzione — per carità potremmo stare qui delle ore a discettare su questo tema dei linguaggi — riguarda l’uso delle parole e delle immagini per fini solidaristici. Oggi veniamo bombardati continuamente da spot televisivi in cui si incita la gente a sparare con il cellulare raffiche di sms per salvare i bambini che rischiano la morte per inedia o Aids in qualche parte del mondo. Ricordiamolo, la comunicazione solidale deve essere sempre e comunque preceduta dalla conoscenza e dall’assunzione di nuovi stili di vita, per evitare che si traduca nella carità pelosa, quella del Ricco Epulone il quale guardava dall’alto della sua mensa imbandita il povero Lazzaro. Non a caso, in Italia le adozioni a distanza furono promosse per la prima volta negli anni ’80, nell’ambito di un’illuminata iniziativa ecclesiale denominata "Contro la fame cambia la vita" nella quale veniva sottolineata a chiare lettere la relazione intrinseca tra l’azione caritatevole e l’assunzione da parte dell’offerente di stili di vita più consoni al Vangelo. È chiaro dunque che la sporulazione di queste campagne medianiche risponde invece, troppo spesso, alla solita trita e ritrita beneficenza. La solidarietà, considerata come valore fondante della fraternità universale, degli stili di vita, delle avventure dell’intelletto aperto al prossimo, ispirata ai dettami della dottrina sociale della Chiesa, deve essere coniugata non solo con il sentimento ma anche con la conoscenza delle vere ragioni, ad esempio, dell’immiserimento di tante periferie del mondo, dove si consumano quotidianamente drammi indicibili. Sperimentando così una sorta d’empatia con gli ultimi. Non a caso il grande Martin Luther King diceva che non dobbiamo avere paura delle parole cattive dei malvagi, ma del silenzio degli onesti.
Per concludere, non posso fare a meno di dire qualcosa su Internet, che certamente potrebbe segnare la svolta a favore dell’affermazione del Bene Comune. Uso il condizionale perché sulla Rete c’è di tutto: grano buono e zizzania. Come molti di voi sapranno, prima c’era Web 1.0 con le sue bacheche, le brochure, i motori di ricerca. Poi è venuto Web 2.0, vale a dire i social network, i blog… Oggi addirittura siamo già proiettati sulle interazioni tra gli oggetti che qualcuno già chiama Web 3.0. E allora, di questo passo dove andremo a finire? Beh, siccome non abbiamo la sfera di cristallo tra le mani, dovremmo sforzarci d’essere perlomeno realisti rispetto ad un areopago comunicativo che mette profondamente in discussione le certezze e i paradigmi del passato. Il tempo stesso delle lancette, quello del "dio Kronos", secondo i guru del digitale, ha subito una sorta di velocizzazione: un anno Internet equivale a tre mesi solari; e un anno solare corrisponde a quattro anni Internet, a riprova che tutto oggi sta schizzando via alla vertiginosa velocità della luce.
Del resto, i cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi sessant’anni non si sono verificati in migliaia di anni di storia. Da questo punto di vista, come cristiani, non possiamo stare alla finestra a guardare. D’accordo, alla prova dei fatti, la tecnologia non è mai neutra, ma porta sempre con sé delle fortissime conseguenze nel "modus vivendi" della gente. Ma proprio per questa ragione a noi viene chiesto di fare tesoro delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie affinché siano utilizzate per rendere il mondo migliore. La telematica e l’informazione, come più in generale la rivoluzione digitale, possono esercitare un ruolo positivo se utilizzate a favore dell’uomo nel sostegno dei poveri e nella diffusione del Vangelo. Sta a noi non rimanere semplici comparse, anche se la cybersocietà è ancora tutta da esplorare e il deterioramento dei rapporti sociali tradizionali è pur sempre un rischio. In questa prospettiva, la Rete fa sì che vi sia spazio per il bene e per il male senza distinzione, rimandando alla maturità del navigatore la scelta di accostarsi a siti diversi. Al momento infatti non mi pare vi sia ancora alcuna intenzione politica di regolare le cose più di tanto nella "melting pot internettiana". E credo comunque che sarà difficile esercitare una vera e propria azione di governo come sognano molti educatori tradizionali. Stiamo parlando di una realtà, quella intenettiana, che comunque al di là dei servizi che essa può offrire, è "Terra di Missione". Da questo punto di vista, ritengo sia necessario esercitare un’azione educativa sugli utenti, promuovendo responsabilità e fiducia. Infatti uno degli errori che viene commesso frequentemente da coloro che si accostano alla Rete con un background culturale "predigitale", è quello di considerarla come "un momento a sé stante" dell’esistenza umana. Si, quasi vi fosse da una parte la vita "reale" e dall’altra quella "virtuale", sancendo una distinzione tra due distinte realtà. Per carità si può anche vivere senza cellulare, ma i modelli e i paradigmi odierni sono un qualcosa d’ineluttabile, forme espressive, linguaggi che fanno parte del "modus vivendi" delle nuove generazioni, come anche di quelle più attardate. Per i giovani delle nostre parrocchie, come anche per i loro genitori, esiste solo una "Vita" che è "iperconnessa", con il telefono e gli sms, con la posta elettronica e con il Web. Ciò che conta è farne un uso intelligente, proteso all’edificazione del bene comune. D’altronde, secondo la strategia di Bill Gates, fondatore della Microsoft, le cosiddette "information highways", le cosiddette autostrade dell’informatica e dell’informazione, non sono solo il sistema nervoso digitale di questa o quell’azienda, ma anche il sistema nevralgico del "no-profit", nelle caratteristiche di economicità ed ubiquità del network.
Lo stesso vale anche per il mondo missionario che peraltro ha iniziato ad utilizzare Internet prima di molte categorie sociali, addirittura nella prima metà degli anni ’90, testimoniando il Vangelo. Oggi in rete troviamo anche molte organizzazioni non governative ed altre espressioni qualificate della società civile. Da rilevare che il pubblico delle reti sociali pare abbia superato quello delle e-mail: 301 milioni di utenti contro 276 milioni. Un esultato confortante anche per noi religiosi che crediamo nel valore della persona creata a immagine e somiglianza di Dio. L’importante è capire che dietro ogni computer c’è sempre una persona alla quale dovremmo offrire fiducia e sostegno, annunciando la Buona Notizia. Non è un caso se Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali ha scritto che Internet rappresenta una "grande opportunità" per la Chiesa e la sua missione evangelizzatrice, anche per promuovere, attraverso la vastissima galassia dei siti cattolici come sui social network, "una cultura di rispetto per la dignità e il valore della persona umana". E allora "cliccate e vi sarà aperto!"