IN MISSIONE
TESTIMONE
tra la gente
Intervista a padre Angelo Pagano, missionario tra Etiopia e Camerun
Il viaggio-pellegrinaggio in Turchia è stata l’occasione per conoscere missioni e missionari diversi. A quelli incontrati nei luoghi di Paolo, infatti, bisogna aggiungerne qualcuno portato
da casa, pronto a cogliere questa occasione per una sorta di esercizi spirituali a cielo aperto, sulle orme del cristianesimo delle prime comunità. Tra questi missionari pellegrini c’era anche Angelo Pagano, della Provincia cappuccina di Milano, con le valigie pronte a ripartire per il Camerun, dove ha iniziato la sua vita di missionario, e dopo essere rientrato pochi mesi fa dalla Viceprovincia d’Etiopia, che aveva il difficile compito di guidare fuori da un periodo un po’ burrascoso della sua storia. Prima di riprendere ognuno la propria strada, ho approfittato della sua esperienza per mettere a confronto le diverse forme di missione di cui è stato testimone, in Africa e in Turchia.
Padre Angelo, come si è sviluppata la tua storia missionaria?
Sono nato nel 1954 ad Asmara, in Eritrea, da genitori italiani e là ho trascorso la mia giovinezza, fino ai diciannove anni, quando mi sono trasferito nei pressi di Milano, a San Donato Milanese. Era il 1973 e nei primi sei anni ho lavorato con i miei fratelli, coi quali avevo aperto un negozio di elettrodomestici, ferramenta e sanitari. Poi, nel 1979, sono entrato nel convento dei frati cappuccini, dove ho iniziato gli studi per arrivare al sacerdozio e nel 1988 sono stato ordinato a Como. Sin dal periodo degli studi ho manifestato il desiderio di poter andare in missione…
Volevi tornare a casa, nella tua Africa…
Più o meno, nel senso che avevo lasciato liberi i superiori di decidere la destinazione, visto che in quel periodo la nostra Provincia aveva missioni in Camerun, in Costa d’Avorio, in
Thailandia e in Brasile. Già nel 1985, come studente, mi fecero fare un’esperienza di tre mesi in Eritrea: un vero ritorno a casa! Poi, dopo l’ordinazione, sono partito per il Camerun dove ho iniziato a fare quello che fanno tutti i novelli missionari: sono stato mandato in una parrocchia con il frate più anziano – quello che praticamente ha fondato la missione – e il primo anno l’ho trascorso cercando di imparare a conoscere la gente e comprendere la situazione in cui mi trovavo. Nel ‘91 sono diventato parroco e due anni più tardi superiore della custodia del Camerun, dove sono rimasto fino all’inizio del 2003.
Com’è la situazione del Camerun per i missionari? Possono essere presenti come missionari o sono costretti a presentare qualifiche diverse, come accade in Etiopia, dove la presenza è possibile solo in quanto insegnanti o operatori della sanità o altro ancora?
In Camerun, da questo punto di vista, la situazione è molto tranquilla e serena e le autorità non fanno nessun tipo di problema. Addirittura il permesso di soggiorno come missionario ha validità dieci anni e non è necessario rinnovarlo tutti gli anni come in altri Paesi. Non ci sono problemi, diversamente da tanti altri luoghi in cui tu puoi entrare solo come un operaio specializzato, con un titolo di lavoro riconosciuto. In Camerun mi sono trovato in una zona abbastanza tranquilla anche dal punto di vista religioso; per l’aspetto missionario, non la s può definire una prima evangelizzazione, visto che la comunità cristiana era già fiorente. La parrocchia del Sacro Cuore in cui ho vissuto si trova nel nord-ovest del Paese, nella zona
inglese, con una ventina di cappelle e una popolazione di circa 17000 anime, sparse in un raggio di quindici chilometri.
Conclusa l’esperienza in Camerun, sei andato in Etiopia…
Sarei rimasto ancora in Camerun, se non fosse stato che l’allora Ministro generale, John Corriveau, mi chiese la disponibilità di prestare servizio in Etiopia come vice ministro provinciale della Viceprovincia generale di Etiopia. E così, il 15 febbraio del 2003, sono arrivato ad Addis Abeba, dove mi sono fermato fino a marzo 2009.
I rapporti tra eritrei ed etiopi non sono dei migliori: la tua origine ti ha creato dei problemi in questo nuovo servizio?
All’inizio, quando all’ambasciata a Roma ho chiesto il visto per andare in Etiopia, non volevano rilasciarmelo, perché avevano letto nel passaporto il luogo in cui ero nato. E questo nonostante fossi nato da cittadini italiani e avessi sempre mantenuto anche la cittadinanza italiana. Vollero sapere tutto della mia famiglia, comprese le origini dei miei genitori e dei miei nonni, per essere sicuri che fossi italiano e, finalmente, alla vigilia della partenza, sono
riuscito a ottenere il visto. A parte questo, non posso dire di avere avuto grossi problemi a causa della mia nascita in Eritrea.
Nemmeno con i confratelli?
Beh, con qualche confratello ho avuto un po’ di problemi; qualcuno si è anche lamentato per il fatto che c’era ancora un eritreo in Etiopia, ma non penso che questo abbia influito negativamente sul lavoro che mi era stato affidato. Qualche battutina qua e là, ma niente di preoccupante.
E questo nonostante il tuo ruolo fosse quello del superiore?
Sì, il mio ruolo era di superiore maggiore, ma penso sia stato accettato proprio per la difficile situazione che si stava vivendo in quel momento in Etiopia. Di certo sarebbe stato difficile per
chiunque, soprattutto originario del luogo, assumere quella responsabilità, per cui era necessaria una presenza al di sopra delle parti. Erano infatti tutti frati che si conoscevano e che avevano trascorso molto tempo insieme, per cui, viste le tensioni presenti, c’era bisogno di qualcuno che non fosse conosciuto e avesse la libertà di muoversi senza problemi. Così, per quanto svantaggiato dall’arrivare da fuori e quindi senza la conoscenza dei frati con cui avrei dovuto lavorare, mi sono sentito libero da ogni tipo di condizionamento e favoritismo.
Lasciamo l’Etiopia per fare sosta qui in Turchia. Siamo quasi al termine di questo nostro pellegrinaggio sulle orme di Paolo, l’Apostolo delle genti, e ora vorrei che provassi a mettere a confronto le esperienze di missione che hai conosciuto fino a ora, in Camerun, in Etiopia e quella incontrata qui in Turchia.
Devo confessare che durante tutto questo viaggio ho pensato molto all’attività missionaria, ripensando a Paolo, ai Padri della Chiesa ma anche ai frati che vivono ora questa esperienza qui. Mi sono reso conto ancora una volta che l’essenziale, anzi il fondamentale, per il missionario è annunciare Cristo. Credo che questo sia il compito primario di ogni missionario e, per raggiungerlo, si debbano cercare tutti i mezzi e i modi per portarlo a compimento. Se troviamo delle porte chiuse bisogna cercare di entrare da una finestra: per questo occorre che i missionari siano capaci di intuizioni, se non addirittura inventarsi qualcosa, pur di poter
individuare come portare l’annuncio. Allo stesso tempo però questo è un annuncio con cui non si può giocare e perdere tempo: deve essere diretto. Il missionario deve trovare il
coraggio di sbilanciarsi, di aprirsi e di andare direttamente al centro della sua missione: annunciare il Signore. Tante volte ci facciamo prendere più dalla compassione e ci buttiamo molto sulle opere sociali e sulle opere di assistenza – che, per carità, sono assolutamente importanti e benvenute – però questo rischia di distogliere noi missionari e le popolazioni alle quali portiamo l’annuncio proprio dal vangelo, e quindi dall’essenziale. Questo è ciò che ho pensato in questi giorni, anche in proiezione futura, visto che al termine di questo pellegrinaggio tornerò nel Camerun. Ecco, ogni giorno prego il Signore che mi aiuti a essere come questi missionari: non avere paura di testimoniare l’annuncio di Cristo in ogni luogo, senza grandi compromessi, nella carità ma nella verità.
In queste sere, noi laici presenti in questo viaggio ci siamo ritrovati diverse volte a domandarci proprio cosa significhi il termine “annuncio”, di cui abbiamo tanto sentito parlare in ogni luogo incontrato. Per te, per la tua esperienza di missionario, che significato ha?
Credo che il Signore stesso ci abbia insegnato il significato con la sua vita. Agli stessi discepoli che gli chiedevano “Maestro, dove abiti?” lui ha risposto “Venite e seguitemi”.
Ecco, io credo che l’annuncio sia il cercare di vivere, innanzitutto personalmente, il vangelo e poi annunciarlo con la testimonianza della vita. Questo penso sia l’essenziale, perché la gente
dovunque è stanca di parole, parole, parole e vuole incontrare gente che in prima persona mostri di vivere il messaggio di Cristo. E quindi aspetta testimoni nella preghiera, testimoni nella carità, testimoni nelle opere di misericordia. Bisogna però stare attenti a non cadere nella tentazione di atteggiamenti del tipo “io so, e quindi dico: fate”, al contrario occorre rimboccarsi le maniche e lavorare insieme alla gente. Questo penso valga in tutti i campi e per
tutte le persone: ecco il significato dell’annunciare il vangelo.
Quale termine useresti per definire l’impegno di questi missionari in terra turca?
La perseveranza, non c’è dubbio. E questo nonostante le grosse difficoltà che abbiamo potuto constatare in questi giorni in un Paese
dove, per quanto il governo si proclami laico e al di sopra delle parti, i missionari sono quasi costretti a vivere nascosti, come fossero nelle catacombe. È di certo difficile vivere in un luogo in cui si è la minoranza assoluta al punto che ci si può contare quasi sulle dita delle mani e conoscere tutti. Ecco, quello che mi ha colpito è proprio la perseveranza con cui questi missionari affrontano ogni giorno il compito che è loro affidato, nonostante tutte le fatiche e certe volte non si veda neppure uno spiraglio. Il loro coraggio di rimanere custodi di questo annuncio mi ha colpito molto.
C’è una immagine particolare di questo viaggio che ti porterai nel cuore al ritorno in Camerun?
Certamente la celebrazione dell’Eucaristia nelle chiese rupestri, dove ho provato una una grande emozione. La Messa naturalmente non cambia che sia celebrata nelle nostre belle chiese o in una spelonca, ma l’emozione di ce- lebrare in un luogo, che è servito per tanti nel passato come nascondiglio in cui poter celebrare la propria fede altrimenti avversata, mi ha molto colpito. E mi ha colpito anche il fatto che anche queste cavernette, queste piccole grotte, siano state abbellite da dipinti che le hanno trasformate per mostrare l’importanza della chiesa non intesa come struttura muraria, ma come comunità di persone con cui celebrare l’Eucaristia. Tutto questo mi ha emozionato molto, così come il pensare a chi è passato in quei luoghi e lì ha trovato rifugio e accoglienza.
A me, soprattutto la celebrazione che hai presieduto tu nella chiesa rupestre, ha fatto rivivere una sorta di condivisione della clandestinità dei tanti che in quei luoghi sono riusciti a mantenere viva la propria fede…
Uno può anche vivere il proprio cristianesimo da solo, ma questo non è certo l’ideale, proprio perché è una fede che va vissuta insieme con una comunità ed anche annunciata a nome di una comunità. I sotterfugi messi in atto nei secoli passati per mantenere viva la comunità fanno pensare al nostro modo di vivere in occidente, dove adesso abbiamo tutte le possibilità e tutte le comodità ma purtroppo si finisce per andare in chiesa solo per un atto di presenza e le comunità non sono vive, se non sulla carta.
E non sappiamo neppure come rianimarle…
Non è di certo consolante, ma credo che, perché si rianimino, dovremo passare attraverso nuovi periodi di difficoltà e persecuzione. Invece di essere contenti di una situazione buona
che abbiamo trovato già pronta, con il dono di essere nati in un paese in pace, in un paese cattolico, da famiglie cristiane con tante possibilità, non abbiamo saputo apprezzare tutto ciò e aspettiamo forse che ci venga a mancare per recuperarne il valore. Come in ogni cosa, la libertà si apprezza quando viene a mancare.
E in Camerun quale situazione di Chiesa ti attende?
La Chiesa è giovane e molto viva. Il Camerun è molto grande – due volte e mezzo l’Italia – ed è stato evangelizzato solo da un centinaio di anni. Nella zona dove siamo noi, nel nord-ovest, l’annuncio del vangelo non è stato facile, ma ora la chiesa è bene avviata e la fede ha davvero fatto presa nel cuore della gente, al punto che ci sono stati anche dei martiri. Dopo la guerra i missionari francesi allora presenti furono espulsi e, per otto anni, i catechisti locali sono riusciti a mantenere viva la comunità, fino all’arrivo dei nostri missionari. Il villaggio in cui torno è nato grazie ai cristiani che erano stati cacciati dalle loro zone proprio a causa della loro fede. In Camerun mi sono trovato molto bene e sono molto contento di potervi tornare.
La missione in Etiopia quindi è conclusa?
Penso proprio di sì, anche se nella vita non si può mai dire in modo definitivo. Già, mai avrei pensato di andare a fare il missionario in Etiopia… e invece è successo! Il superiore viene eletto per tre anni e può essere riconfermato per altri tre, cosa che è puntualmente avvenuta nel mio caso. Al termine dei sei anni credo che il compito che mi era stato affidato dal Ministro generale, di sostegno della fraternità locale in un momento di particolare difficoltà, sia stato esaurito così come la necessità della mia presenza. Ora, tra una settimana, mi attende il Camerun, dove non vedo l’ora di tornare.