Hanno capito che era giunto il momento di cercare altro partendo da tre parole chiave: missione, fede e aiuto. Così Laura e Gigi hanno fatto diverse esperienze missionarie e da tutto ciò hanno compreso che “fare” non è semplicemente costruire chiese, ospedali, case o monumenti… Fare è anche e soprattutto ascoltare, guardare, annusare, pregare, Amare.
Siamo Laura e Gigi, coppia felicemente sposata da 35 anni, con 3 figlie, intensamente volute, ragione prima del nostro vivere. Ma nonostante tutto ciò, come penso capiti a molti prima o poi nella vita, un grande senso di vuoto ha preso il posto a lunghi periodi di sofferenza conseguenti alla perdita inevitabile di alcuni nostri cari. È nata così la necessità di dare una sferzata di energia nuova di fronte all’improvviso senso di inutilità nella nostra pur ben ricca quotidianità, di sondare in profondità il significato del nostro credere, di dare una risposta a questo impellente bisogno di “fare qualcosa d’altro”. Ci siamo così guardati negli occhi, esplorato i nostri cuori, messo a nudo le nostre paure, e ci siamo detti: “E ora?”. La nostra fede così vacillante, il nostro egoismo così radicato, il nostro “nulla”, potrà mai ccostarsi ad un invio missionario? Missione: non sarà forse la parola che racchiude un agire troppo grande per noi? Fede: ma come possiamo trasmetterla ad altri quando la nostra è così debole? Aiuto: ma chi vogliamo veramente aiutare, il nostro prossimo bisognoso o noi stessi? Beh, se i nostri passi sono stati alquanto incerti e i nostri dubbi infiniti, c’è stato però chi ci ha teso una mano, consapevolmente o meno, tanto da aiutarci a capire cosa poteva nascere da un nostro desiderio di “fare”. E poi, abbiamo deciso: ci siamo presi per mano e abbiamo lasciato che fosse solo il cuore a guidarci in quest’avventura. La prima esperienza è stata in Tanzania nel 2013 accompagnando un Padre calato in una realtà di estrema povertà in un contesto di bimbi orfani o abbandonati dai genitori: questa è stata un pò la pietra miliare del nostro percorso perché abbiamo voluto con noi le nostre giovani figlie. Per loro l’esperienza, vissuta in modo molto diversa dalla nostra data la giovane età, ha però significato spalancare le porte a nuove realtà: tutto ciò nel corso degli anni ha dato dei risvolti insperati alla loro crescita e oggi loro rappresentano per noi un seme gettato in terreno fertile che sta dando frutti meravigliosi: amore, condivisione, rispetto, attenzione verso gli altri. Ed ora eccoci qui, nel mondo missionario dei Frati Cappuccini. Ringraziamo dell’opportunità che ci hanno dato: come non accogliere la provocazione che ci sono state lanciate nel corso dei vari incontri non solo formativi. Qui abbiamo penetrato in profondità il magico mondo della missione, e abbiamo capito che “fare” non è costruire Chiese, ospedali, case o monumenti… FARE è anche e soprattutto ascoltare, guardare, annusare, pregare, AMARE. E insieme, compagni nella vita, ci siamo messi alla prova in un ambiente a noi non così congeniale: abbiamo sperimentato cosa vuol dire essere “coppia” in mezzo a difficoltà mai affrontate prima, a mantenere la nostra individualità pur in un percorso comune dove la forza dell’uno sorregge la debolezza dell’altro. Troppi sono gli spunti da cui trarre insegnamenti nel corso dei nostri viaggi in missione, impensabili da racchiudere in poche righe. Un groppo in gola ci impedisce di manifestare a parole ciò che è lo scombussolamento spirituale che ha creato uno dei tanti momenti di preghiera delle Suore del Monastero di Zinviè in Benin, il loro canto, le loro danze, momenti di profonda comunione con Dio: loro li hanno condivisi con noi e nella loro grande umiltà hanno considerato noi, pellegrini nella faticosa ricerca di una fede profonda e più autentica, portatori di parole e gesti ricchi di spirito missionario. L’amore tra noi ci ha portato a trasmettere amore toccando le manine sporche di bimbi scalzi, dagli abiti laceri, affamati di affetto e attenzione, ad abbracciare uomini e donne dal fisico provato ma dallo sguardo fiero e dal portamento dignitoso. Io, infermiera, abituata ad assistere malati in corsie d’ospedale lindi, superefficienti, mi sono avvicinata e affiancata a persone malate accolte in un sudicio dispensario nella città di Soddo in Etiopia, privo dei più elementari presidi medici, ma dove le Suore di Madre Teresa di Calcutta, comunque e nonostante tutto, con i pochi mezzi a loro disposizione, pulivano ferite, accarezzavano corpi emaciati, dispensavano cure con grande dedizione. Gigi, impiegato in una multinazionale dove il profitto è tutto e vale solo la legge dello sgomitare per affermarsi, ha messo a nudo la sua vera indole di uomo poco avvezzo alle scalate sociali, pronto a inventarsi ruoli impensabili: elettricista e imbianchino nel monastero di Zinviè in Benin oppure conduttore di un cineforum improvvisato in Etiopia dove gli è stato chiesto di tradurre e sviscerare i contenuti di “Ben Hur” ad una schiera di ragazzini, vestendo i panni del Catechista, ruolo certamente non suo ma affidatogli da un grande Padre qual è Abba Marcello. Missione così è diventata parola dai mille significati: condividere, guardare con occhi nuovi altre umanità, conoscere noi stessi per poter comprendere gli altri, scoprire i nostri limiti per accettare quelli degli altri, per capire che ciò che ci differenzia è la ricchezza più grande. Il girotondo di bambini dai piedini impolverati, giocosamente improvvisato in un’arida spianata di fronte a capanne di fango e paglia, non ha nulla da invidiare ai nostri parchi gioco superaccessoriati. Anzi, forse sì, c’è qualcosa che lo contraddistingue: le risate incontenibili di questi bimbi dal sorriso sdentato, non abituati a condividere un gioco con degli adulti. Grida di gioia che hanno raggiunto il cielo, dove sicuramente un Dio Padre Buono e Misericordioso, guarda e ride con loro!